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Terlaner Primo 2015, sfida al buio con Sauzet, Romanée, Ramonet e i bianchi top del resto del mondo

Alt(issim)o Adige, Pinot Bianco sugli scudi

Alto Adige contro Resto del Mondo. È un ragionato scatto d’orgoglio, di brand ovviamente, ma anche di territorio, il motore del challenge che Terlano, una delle assolute aziende bandiera in quel comparto di solide ‘sociali’ che ha fatto la storia e la fortuna commerciale dei vini atesini, si regala, e regala a un suo vino apicale. Una sfida che ha anzitutto il sapore di un défilé: ‘invitare’ una manciata tra i più stimati, premiati (e pagati) bianchi del panorama internazionale (fatti con l’uva più universalmente “riconosciuta”, lo Chardonnay) e metterci in mezzo un proprio fiore all’occhiello basato sulla varietà che aspira a diventare la più importante in zona, e a essere definitivamente ammessa nel novero delle più importanti del mondo: il Pinot Bianco. Non solo (o non tanto) per battere e/o combattere. Ma per ribadire, con la prova dell’assaggio alla cieca affidato a un gruppo di professionisti della critica e della degustazione, che su quell’ipotetico “red carpet” enoico i prodotti di punta suoi – e dunque dell’area di riferimento – hanno pieno diritto a sfilare. Magnificando al contempo un cépage che, in fondo, più atesino di così non potrebbe essere.

Ecco allora i magnifici 9 in campo, divisi (ma solo chi ha “coperto” i vini sa dall’inizio come) in tre serie da tre. A formare il mazzo (con l’ordine di servizio svelato post assaggi, che voi potete leggere di seguito) gli 8 Chardonnay di cui sopra, tutti di annata 2015 (scelta perché trasversalmente positiva) salvo uno (peraltro il più paludato di tutti, più “anziano” di un anno), e il padrone di casa, il Terlano Primo 2015, tremila bottiglie in tutto sugli oltre 1,5 milioni del plafond produttivo odierno della cantina, Pinot Bianco come colonna portante e pennellate di Chardonnay e Sauvignon a rifinirne il profilo. Con un compito non facile, visto che è chiamato a confrontarsi con due riconosciuti capofila dei rispettivi paesi del Vecchio Continente (i prodotti dello svizzero Gratenbein e il tedesco Bernhard Huber), tre extraeuropei di rango (due americani e un “aussie” del calibro di Giaconda), ma soprattutto pezzi di cuore di Borgogna come il Ruchottes di Ramonet, lo Chevalier di Sauzet e l’ormai “paperonico” per quotazioni Montrachet Romanée Conti. Roba da far tremare le vene dei polsi. Tanto più che con coraggio tale da rasentare idealmente l’incoscienza, il Primo si è auto-infilato nel girone di ferro –  l’ultimo – a mo’ di prosciutto nel panino-morsa dei due Montrachet, quello con la targa del mitico Etienne e quello recante il timbro di platino della scuderia di Hubert de la Villaine. Come ne è uscito? Prendeteci pure, se volete, per tifosi (ma credetemi, non è andata così), ma la risposta è: al di sopra di tutte le aspettative. Mettendo in fila per distacco fior di competitors come il Belle Cote di Michael, il Bienenberg di Huber e lo stesso Premier Cru di Chassagne, ma soprattutto non sfigurando affatto nemmeno al cospetto di un’aristocratica delizia come lo Chevalier (il numero uno della serie per il sottoscritto, e non solo) e il ’14 del Domaine, che peraltro non è stato, tra i grandissimi (pur con l’attenuante d’annata) il più convincente. Ma ecco, in dettaglio, com’è andata.

i vini

1 Peter Michael Belle Côte Chardonnay 2015

Peter è uno dei re di Calistoga, e dell’intera Napa Valley. Il suo fiore all’occhiello (fighissimo) è forse il rosso Au Paradis (nel 2015 n.1 nella top 100 di Wine Spectator). Ma il suo Belle Côte, figlio unico di vigna omonima, 28 anni, 500 e passa metri, terreno vulcanico, fermentazione dichiarata con lieviti indigeni in rovere francese nuovo (dove resta 11 mesi sur lie trattato con batônage settimanali) e non filtrato, gode di altissima reputazione. E non la usurpa. Ha naso pieno, fresco ma intenso: calore e sapore pieno al palato, poca mela e non moltissimo agrume, ma spina acida sufficiente e ben poco del mix “panza” & legna” che molti associano ancora di rigore alla California. Lungo, appena caldo e balsamico, chiude tra cenni di miele (al salire della temperatura) e ricordi composti di oliva. Lascia indizi sulla provenienza, ma è un vino più che giusto.

Prezzo: 150 euro Nota: 92/100

2 Aubert Ritchie Vineyard Chardonnnay 2015

Se con Michael dire “America” ci stava, ma già non era così immediato o scontato, Aubert è davvero uno che rimescola le carte. Acidità netta, distinta, luminosa è il primo impatto che il vino regala. E – diciamolo senza pudore – la prima patria che viene in mente non è la pur vocata Sonoma County: il gusto inizialmente citrino, l’approccio cristallino, la tensione, rimandano a parametri di latitudine e quota che inizialmente tendi a pensare (un po’ ideologicamente) europei. Eppure, il Ritchie svolge per intero la malolattica, nasce e cresce – sulle fecce fini – in rovere francese nuovo, e va in bottiglia, dichiara il suo autore, senza chiarifica né filtrazione. Ma è davvero un lampo di fresca verticalità. Lo aiutano,certo, i 50 anni del vigneto, la produzione limitata (pur se non lilliput: 6.000 pezzi) e la mano severa di chi lo fa.

Prezzo: 160 euro. Nota 92/100

3 Giaconda Estate Vineyard Chardonnay 2015
La leggenda (ma chi c’è stato dice che una volta tanto coincide con la storia) vuole che il produttore “cammini” la vigna e lavori in cantina a piedi scalzi, con un atteggiamento di cercata integrazione fisica con piante, suoli, attrezzi e prodotto finale. Che alla lunga qualche indizio di esoticità lo dà. Ma piace assai. Classico, molto centrale, appena morbido, molto intrigante, al gusto marca una sorta di nota dialettica, perché entra pieno e avvolgente, ma poi rinfresca, esprime leggere sensazioni balsamiche, e tiene benissimo. È l’unico dei player di questo elitario campionato organizzato da quelli del Terlaner tappato con tappo a vite. Ed è l’atro – se volete – esotismo che lo distingue. Il vigneto è a 400 metri, ai piedi delle Alpi (ci sono anche lì) Vittoriane, si affina in legni francesi nuovi al 30% dove svolge per intero la malolattica e passa 22 mesi. Anche lui è dichiarato “unfiltered”.

Prezzo: 100 Nota: 94/100

4 Bernhard Huber Chardonnay Bienenberg Großes Gewächs 2015
Il luogo di nascita è stato un mistero svelato senza troppe incertezze dalla stragrande parte dei degustatori. Certo, ben fatto, e meritatamente reputato, lo Chardonnay di Huber è però senz’altro molto teutonico (benché prodotto al confine con Francia e Svizzera, nel Baden di Malterdingen) per il contrasto talmente netto da risultare per qualcuno un filo stridente tra nerbo acido, “guscio” morbido e piccolo amartume finale. Nasce su calcare ricco di fossili (dunque un gran bel suolo) da piante utrasessantenni disposte su terrazzamenti tra i 250 e i 280 metri di quota, ed è figlio di un’annata non lineare, inziata male (grandine) ma finita bene, con peerdita di quantità ma non qualità. Il produttore in patria è considerato uno dei maghi del Pinot Nero. Lo Chardonnay è risultato per me un filo sotto i suoi “rivali”di giornata. Ma costa anche da molto a moltissimo meno.

Prezzo 50 euro. Nota: 89/100

 

5 Gantenbein Chardonnay 2015
Valle del Reno, cantone dei Grigioni, comune di Flasch, vocazione altissima, terreno scistoso misto a gneiss. Lavorano qui Martha e Daniel, i proprietari, che a fine vendemmia 2015 erano divisi tra contentezza (per la qualità davvero alta delle uve) e sofferenza, per una quantità ridotta di quasi un quinto rispetto alle loro medie. Perdita importante se si considera che la vigna a Chardonnay misura appena un ettaro, mentre altri 4 sono consacrati al Pinot Nero. Il vino nasce e cresce in legno (francese e nuovo al 70-80%), ci resta un anno e non viene filtrato. E il risultato (non sarà facile riassaggiarlo vista la quantità esigua prodotta, ma impegnandosi un po’ e grazie alla rete nulla è impossibile) promette vita lunga e in progress. Anche se il primo impatto, diviso tra una legnosità forse più incisiva che in altri, e la vena acido-minerale, in questa fase non risulta forse ancora totalmente accordato.

Prezzo 140 euro. Nota: 91/100

 

6 Domaine Ramonet Chassagne-Montrachet Pemier Cru Les Ruchottes 2015
Intendiamoci: è comunque un signor vino. Tanto che a un certo punto c’è chi un po’ pensa (e sottovoce quasi confessa) che se fosse il”nostro”, inteso come italiano, non sarebbe poi andata neanche male… Ma quando viene via la calza che copre la boccia (e i sospetti larvati di alcuni degustatori vengono confermati) il piccolo contraccolpo c’è. Ramonet è un nome così illustre, e questo vino una sorta di assegno circolare di tale affidabilità, che il piccolo calore affiorante, certe morbidezze vagamente ammandorlate, il fruttato ricco ma in conclusione un po’ meno “noblesse et pureté” di quanto ci si sarebbe potuto aspettare (e desiderare) lasciano un pacchettino di vogliette inevase.

Prezzo 150 euro. Nota 92/100

 

Montrachet

7 Etienne Sauzet Chevalier Montrachet 2015 Grand Cru

Certo, a un certo punto il cerchio si stringe, e la classe si impone. Qui sulla provenienza non s’è sbagliato decisamente nessuno, e sull’identità pressoché idem. Classe, rango, finezza. Una nuvola di eleganza con dentro tutta la sostanza che serve, e neanche un filo di zavorra o di pesantezza. I varietali migliori dell’uva, la complessità apportata da un lavoro di cesello coi legni, la rifinitura della massa in acciaio (gli ultimi sei mesi sulle fecce fini prima della bottiglia), e poi  le stimmate del territorio (la fettina di paradiso che sta sulle cartine della Côte a sinistra di Puligny, appena più su del Montrachet-Montrachet e, a scendere, del normalmente  più corposo Bâtard) a comporre un vino fantastico. Ennesimo segnale della rimonta pazzesca messa in atto da casa Sauzet negli ultimissimi anni dopo un intervallo (una specie di amnesia) di quasi un lustro non pari alla importanza del blasone. Costa (ahi, la Cina…) ma vale. Per me (e non solo), number one tra i 9.

Prezzo 600 euro. Nota 98/100

 

8 Terlaner Primo Grande Cuvée 2015
Quando arriva, per comparazione e logica, capire che è “lui” non è più così difficile. Ma la (bella) sorpresa, a certezza acquisita e bottiglie nude, non dimagrisce d’un millimetro. Corpo, avvolgenza e imperiosa personalità, ma temperata di giusta finezza e vestita con stile impeccabile. Gastronomico (fa venir fame…) e palesemente evolutivo (chi lo ha fatto svela il sogno e dichiara ambizioni trentennali di vita in progress e senza remissioni), il Primo, tremila orgogliose bottiglie prodotte, e prezzo che sfida anche lui i “grandi” (con l’eccezione dei superbig di Borgogna) con cui si è confrontato in degustazione, dice soprattutto una cosa: che puntare su una rivendicazione di zona top del mondo per il Pinot Bianco dal punto di vista atesino non è né un errore, né un azzardo.

Prezzo 150 euro. Nota: 95/100

 

9 Domaine de la Romanée Conti Montrachet 2014
Certo, in bocca dura mezz’ora. Quando hai quasi scordato che l’hai bevuto e stai parlando d’altro col vicino, torna e ti dà un colpetto sulle papille, tanto per ricordarti che è lui. Stavolta però forse non fino in fondo. Sarà l’anno non super, sarà che è ancora imballato… ma il desiderio di sovrana superiorità (la libidine della resa) che si prova davanti a un vino della sua fama, stamina e costo qui del tutto appagato non è. Si parte con lievissima carbonica, da bravo epigono della biodinamica alla borgognona. Vibra quasi metallico, con intensità e incisività. Ma non di armonie celesti. Da risentire, certo (quando? come? e, soprattutto, a casa di chi??). Per pentirsi, magari. Sport per il quale, si sa, c’è sempre tempo (specie se si è cattolici). Ma per ora the winner non è lui…

Prezzo da 4.500 euro in su. Nota 96/100

 

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