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Ma com’è bella la Vedova in rosa! Champagne in festa per i 200 anni di Veuve Clicquot Rosé

Nel 1818 la rivoluzione voluta dalla donna

che ha cambiato la storia della denominazione:

usare vino rosso di Bouzy anziché… sambuco

per dare colore e identità al suo vino più elitario

 

Reims celebra l’anniversario vestendo di luce rosata

i suoi principali monumenti. E la Maison festeggia

con una “verticale” super e il lancio della nuova Jeroboam

 

È un trionfo della donna a tutto tondo. Perché, se è pur vero che qui in Champagne si attribuisce a un maschio – e abate per giunta – il merito di aver messo in moto le bocce e ”inventato” quella che è divenuta una leggenda e un archetipo del gusto mondiale, non c’è dubbio che sia stata poi una signora straordinaria, rimasta prematuramente vedova e capace di sfidare tutte le convenzioni e i limiti di mentalità della sua epoca storica, a dare il via all’era moderna dello Champagne: quella del grande export nei paesi più lontani e… assetati, quella dei brand che fanno la differenza, dei cambi di dosaggio (cioè la maggiore o minore morbidezza, o al contrario tensione assicurata al vino) modellati sulle varie fasce di clientela.

Ed è targata Nicole Barbe Clicquot nata Ponsardin anche la decisione – frutto di lunga meditazione, ma poi, una volta maturata, ferma ed univoca come tutte le sue – di rivoluzionare una volta per tutte anche la “quota rosa” di quel vino con le bolle prodotto nella sua regione e lanciato ormai alla conquista del mondo. Fino ad allora, per dare (su richiesta) un tono di rosa allo Champagne e diversificarne il colore la tendenza era usare il succo di bacche di sambuco… A casa Clicquot, la scelta codificata e mai più abbandonata dal 1818 in poi (e divenuta poi trasversalmente dominante, con l’eccezione molto meno praticata di chi ricorre alla macerazione diretta di Pinot Noir e/o Meunier) fu quella di tagliare con un po’ di vino rosso fermo (preferibilmente della Montaigne di Reims, a cominciare dal cuore “sudista” e a tutto tondo della zona, Bouzy, ma poi anche Verzy, Verzenay, Ay, tutti classificati oggi Grand Cru) le sue basi bianche.

Duecento anni dopo, e a una manciata di giorni dalla festa mondiale dell’8 marzo, la città della signora Ponsardin vedova Clicquot si veste per riconoscenza del colore che convenzionalmente identifica la metà femmina del mondo, illuminando con fari rosé i suoi principali monumenti. E la Maison che porta il nome della grande pioniera solennizza da par suo l’evento, ma coglie anche l’occasione per fare un altro passo sul percorso parallelo di “contemporaneizzazione” (e dunque di conquista trasversale di fasce di mercato di ogni età, mirando possibilmente alle più giovani) e dall’altro alla rivendicazione di un prestigio,  di una storicità e di un lignaggio che è nei cromosomi, ma che ha rischiato in alcune fasi (neppure troppo lontane) l’annacquamento, forzatamente, ma anche a tratti un po’ superficialmente  diluito nel mare di una produzione dai grandissimi numeri e di una distribuzione, a corredo, pressoché ubiquitaria.

Il salone dell’Hotel du Marc a Reims

Apre le porte dunque casa Clicquot, cioè il bellissimo Hotel du Marc, in piena Reims, centro di accoglienza arredato e “vestito” con toni 100% fashion, ma di straordinaria arguzia e riuscita, ma anche quelli della vigna più prestigiosa e preziosa del suo repertorio di proprietà sulla Montaigne, il Clos Colin, mezza costa a Bouzy, esposizione perfetta, suolo da manuale (per calpestarla vengono forniti stivali ad hoc, rigorosamente nel color becco d’oca che è il manifesto della ditta), uve riservate alla composizione della Grande Dame, lo Champagne top di gamma, e poi ne vengono proposti in assaggio i frutti: dai “vins claires”, cioè i tesissimi vini base d’annata (qui la 2017) che  entreranno via via a far parte dei vari assemblaggi, fino ai Coteaux Champenois, cioè i Pinot Noir fatti per essere bevuti, ma che la casa non mette in commercio e riserva a occasioni speciali, risalendo fino a un commovente 1955, prova vivente di classe e potenzialità dalle evocazioni borgognotte (“chambolliane” per la precisione) di alcuni vigneti di qui. Quindi, nel corso di una densissima giornata coordinata alla grande dal “motore” impeccabile dell’era contemporanea di Madame, lo chef de cave Dominque Demarville (assistito da una squadra affiatata e accogliente e dal grande sommelier italiano Enrico Bernardo voce narrante durante le degustazioni) sfilano varie edizioni di Grande Dame, appunto, che il Colin hanno dentro, nel mix: la 2006, la 2004, la 1990 (grandi vini tutti, con punta di personale soddisfazione per la riuscita di un 2006 da cui il sottoscritto onestamente non si attendeva tanta complessità e freschezza). E viene lanciata (e assaggiata: con prova ulteriore, servisse ancora, che se c’è una categoria di vini cui i grandi formati giovano, quella è la squadra degli Champagne, e più in generale, delle bolle di valore) la fin qui mai prodotta Jeroboam di Rosé non millesimato, che andrà a incontrare una fascia di mercato che riguarda, più che gli stessi “happy few” privati, quei locali (lounge, wine bar di alta gamma, ristoranti di una certa fascia che la usano come raffinata routine di accoglienza) che sul servizio al calice di Champagne Rosé possono e vogliono lavorare intensamente.

Ma il cuore e il clou della festa è la straordinaria “verticale” di Rosé dalla Cave Privée, l’archivio vivente aziendale, proposte in una serie emozionante che risale il tempo fino a 71 anni fa.

Le annate prescelte e assaggiate sono: 1990, 1989 (entrambi in magnum), 1985, 1979, 1978, 1961, 1947. Prima del dettaglio che ciascuna di esse stramerita, una considerazione generale: pur nelle differenze di stile (più chef de cave a succedersi nel tempo, sboccature di 20 anni fa per l’85, 18 per il ’90, dieci per ’89 e ’78, sette per il ’79, e lavoro fatto alla volée il mattino stesso dell’assaggio e senza dosaggio per i due enormi “vecchi”), la qualità media è siderale, le annate rispettate e interpretate (pur con sorprese inevitabili e scostamenti altrettanto inevitabili, pur se non clamorosi, di giudizi tra i degustatori) e la luce del Rosé di casa limpida e alta.

Verticale” di Rosé Grande Dame dalla Cave Privée,

1990 il più accogliente e inizialmente persino un po’ troppo satrapicamente “morbido” della serie. Conta la data di sboccatura, certo: ma conta poi lo scattto di reni che nel calice, aprendosi via via senza spegnersi, anzi, il vino compie, riguadagnando terreno. Il problema è la compagnia che lo segue, semmai. E che è tutta , in modo e con accenti diversi, sensazionale.

1989 densità e vita, profumi di spezia impressionanti per questo millesimo con dentro il 12,8% di rosso di Bouzy e il 29% di Chardonnay (il resto è Pinot Noir) dosato con soli 4 grammi. Vibra e incanta.

1985 la crema in bocca, la sapidità lungo i margini della lingua, dove si sente di più, la densità di una nuvola che cresce fino a lasciare ricordi di pasticceria e insieme di muscolo vinoso. Un capolavoro.

1979 Ben il 19% di vino rosso nel taglio, e note che cambiano drasticamente rispetto ai precedenti. Sottobosco e ricordi di grande Cognac, quasi, si inseriscono nella palette abituale fin qui sciorinata dai predecessori. Dentro c’è anche il 5% di Meunier. Il finale è imperioso.

1978 15% di rosso di Bouzy nell’impasto, 3% di Meunier e 28% di Chardonnay, il solito dosaggio (4 grammi) e un’acidità viva, vibrante, una spina dorsale dritta, forse un po’ meno vestita di carne ma decisamente luminosa di gloria in rapporto all’età.

1961 il primo di due”mostri” assoluti, quelli su cui (inchinandosi ad entrambi) si è divisa la platea dei degustatori. Entrambi vini da favola, vivi, espressivi, intensi, due diamanti della gamma. Ma il ’61 per chi scrive più armonioso, completo, orchestrale. Non c’è punteggio che tenga per un vino così.

1947 è più jazz e piccolo ensemble (per restare in musica) rispetto al sinfonico ‘61 l’altrettanto memorabile e monumentale, però, 1947, nel senso che i componenti del gusto (acidità in primis) arrivano più a ondate, meno fusi, pur estremamente incisivi e luminosi (c’è anche frutto ancora molto bello e pieno). Come assoli di grandi perfomers. In sintesi: avercene…

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